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Tech Transfer Made in Italy, la via del futuro

Definire il trasferimento tecnologico è un’attività impegnativa, soggetta a dinamiche ogni volta nuove. Capita che l’uditore per quanto spesso attrezzato di competenze multidisciplinari e solide, con difficoltà riesca a mascherare la propria incertezza di fronte all’oratore esperto di trasferimento tecnologico, una materia affascinante e ostica da spiegare allo stesso tempo. 

Pertanto, per introdurre una breve ‘guida’ al trasferimento tecnologico, non c’è niente di meglio che partire dalla stessa definizione usata dalla Commissione Europea sulla pagina ufficiale del Competence Centre on Technology Transfer d’Europa: “Research transforms money into knowledge… technology transfer transforms knowledge into money”. (Geoffrey Nicholson, father of the Post-It – 3M)

Mi piace da sempre definire il TT come uno strumento di accelerazione economica di un qualsiasi Paese industrializzato.

Con TT si intende descrivere la sequenza di una serie di attività concatenate fra loro all’interno di un percorso di innovazione, sviluppate da un qualsiasi team di ricerca (sia pubblica che privata) spesso con il supporto di altri partner di innovazione (industrie, consulenti, venture builder e venture capital), atte a trasformare le competenze e i risultati scientifici ottenuti in prodotti innovativi, utili per il mercato e, dunque, a esso trasferibili.

 

Il modello di TT

Il trasferimento tecnologico è dunque un processo, lungo, costoso, che non può essere portato avanti senza il supporto governativo o in assenza di un’idea chiara di modelli, procedure e strumenti. Nessun processo di TT può funzionare se non è abilitato dalla creazione di un modello in cui renderlo dinamico e, soprattutto, veloce.

Come un treno ad alta velocità: i tempi della trasformazione tecnologica in cui viviamo non consentono pause lunghe, al contrario ci inducono continuamente a migliorare, a innovare sia in qualità di produttori di tecnologia che di utilizzatori finali, i quali a loro volta dovranno in fretta assumere consapevolezza della propria centralità nel poter orientare il progresso tecnologico. I bisogni della società e dell’individuo, se ben compresi e rispettati, potranno essere il driver di attivazione della produzione scientifica, prima, e tecnologica, dopo, del nostro futuro. Proprio per questo il TT, quale ponte tra ricerca, industria e bisogni dell’individuo, è lo strumento chiave per raggiungere la sostenibilità economica, tecnologica e sociale auspicata. Ma per arrivare a ciò bisogna iniziare a pensare in maniera controintuitiva.

Sebbene il TT sia un processo lineare, l’ambiente in cui potrà vivere e svilupparsi non può che essere multidisciplinare. Le filiere di TT per essere efficaci devono essere inclusive, capaci di accogliere le diverse competenze lungo il percorso di maturazione di una soluzione tecnologica.

Qualsiasi processo di trasferimento della conoscenza dipende dai modi e dagli strumenti con cui questa viene gestita nel processo stesso. Questo ci porta a disegnare un sistema di molteplici relazioni, ruoli, competenze e valori, chiamato in letteratura modello a Quintupla Elica, ovvero un modello di co-sviluppo in cui i vari attori sono chiamati a cooperare e insieme a creare le filiere nazionali e regionali del trasferimento tecnologico. Questo modello teorico è supportato a livello europeo, ma nella sua implementazione italiana ha ancora bisogno di una serie di elementi concreti.

In particolare, un modello di TT al quale l’Italia deve e può tendere è un modello più dinamico e ampio dei modelli di co-sviluppo a quintupla elica fin qui noti: un modello italiano deve avere forma multidimensionale e identità multidisciplinare e deve essere tale da accogliere le attività dei diversi operatori rendendole molto più integrate, grazie all’apporto del comparto privato. Sto parlando di quello che si potrebbe definire un modello italiano di Co-evoluzione della conoscenza ovvero un modello “di evoluzione congiunto dei vari attori coinvolti i quali interagiscono tra loro tanto strettamente al punto da costituire ciascuna un forte fattore selettivo per l’altra, col risultato di influenzarsi vicendevolmente” (significato italiano della parola co-evoluzione).

Nel secolo scorso siamo stati abituati a pensare di dover correre da soli verso il traguardo dell’Innovazione, anzi, di proteggerci e chiuderci il più possibile alla conoscenza esterna, temendola e cercando di bloccarla. Ma è proprio la capacità di passare da un modello di innovazione monocentrico e autoreferenziale ad un modello di co-evoluzione inclusivo che garantirà di raggiungere interessanti risultati di sviluppo tecnologico, e quindi di business.

Proviamo a disegnare questo modello di co-evoluzione partendo dai quattro ingredienti essenziali che lo compongono, quali una forte cultura dell’innovazione, un efficace ecosistema scientifico e industriale, il sostegno governativo, la capacità di comunicare le eccellenze tecnologiche e i risultati ottenuti, e immaginiamo un modo per coinvolgere tutti gli attori necessari a costruire la filiera del trasferimento tecnologico.

Pensiamo alla popolazione delle competenze della ricerca, dell’industria, della formazione, della accelerazione di impresa, delle istituzioni politiche e della regolamentazione. Sono come degli “autostoppisti” pronti a salire a bordo del treno del trasferimento tecnologico, ma ancora un po’ timidi perché non si conoscono e la condivisione di un mezzo, così come di uno spazio, genera timore e sospetto. È necessario che attraverso una guida comune e neutrale trovino la motivazione e la modalità con cui condividere conoscenza creando valore, che è il prezzo dell’intera corsa.

Dunque, il nostro modello nazionale a quintupla elica, atto ad accogliere e valorizzare i nostri ‘autostoppisti galattici’ dell’Innovazione, potrebbe prevedere una struttura centrale (SCTT – Struttura Centrale di trasferimento tecnologico) e diverse strutture periferiche (SSTT – Società di Sviluppo del trasferimento tecnologico). La struttura centrale, istituzionale e partecipata dal Governo, ha lo scopo di supportare le strutture periferiche, operative e autonome da quella centrale. La SCTT non è operativa, ha in sé il ruolo di rappresentanza nazionale all’estero e di facilitazione delle attività promozionali delle strutture periferiche. Non gestisce danaro e non finanzia le SSTT, le quali sono finanziate dalle Regioni per il 50% e si autofinanziano per il rimanente 50%, grazie al business che sono in grado di generare dalle attività di trasferimento tecnologico.

Le SSTT sono società interamente private ed operano principalmente nelle loro regioni di pertinenza o, al di fuori di esse, in collaborazione con le rispettive SSTT di altri territori del Paese. Hanno tre aree principali di competenza: la consulenza, la formazione e l’accelerazione di impresa. Al proprio interno acquisiscono competenze per gestire i progetti di innovazione dei centri di ricerca e la loro natura privatistica è garanzia di velocità, snellezza e focalizzazione sugli obiettivi di business. Sono loro ad accelerare il trasferimento tecnologico del proprio territorio e a decidere quali strumenti utilizzare. Tutti i TTO della stessa area geografica di pertinenza fanno riferimento a essi. Di contro, il non raggiungimento degli obiettivi sufficienti per la propria sostenibilità finanziaria entro cinque anni comporta la revoca del finanziamento pubblico a partire dal sesto anno.

Le SSTT supportano gli ecosistemi dell’innovazione, i centri nazionali e i partenariati estesi attualmente costituiti grazie ai finanziamenti PNRR della misura 4 “Dalla Ricerca all’Impresa” del valore di 11,4 miliardi di euro, ma sono da essi indipendenti.

 

Uno strumento di gestione del Trasferimento Tecnologico: la guida galattica IPLCM

Il successo di un modello di TT, come quello che abbiamo appena descritto, si basa sulla forza delle procedure e degli strumenti di cui si dota per funzionare.

Uno degli strumenti di gestione del trasferimento tecnologico, validato in ambiente industriale e rispondente alle procedure ISO di gestione della proprietà intellettuale, è il così detto Intellectual Property LifeCycle Management (IPLCM@), che controlla le evoluzioni del progetto di sviluppo e orienta le scelte tecnologiche verso i bisogni di mercato. Monitora tutte le fasi di creazione dell’Innovazione partendo dall’identificazione del need allo scopo di ottenere la migliore ipotesi di soluzione, per poi proseguire verso l’identificazione della più efficace configurazione tecnologica rispetto alla concorrenza di mercato. Tutto ciò attraversando le fasi delicate e strategiche della creazione del portafoglio di Proprietà Intellettuale più consono al modello di business che si vuole utilizzare. Durante questo percorso, intervengono i nostri “autostoppisti”, competenti in diversi settori strategici e che insieme apportano conoscenza e valore. Parliamo degli esperti tecnici e legali di Proprietà Intellettuale, dei consulenti in valorizzazione brevettuale e in valutazioni di mercato, dei Venture Capital, dei Venture Builders, che insieme aiutano il progetto a trovare risorse finanziarie e nuove competenze per accelerare la crescita delle piccole società tecnologiche che loro stessi supportano, e infine parliamo delle grandi industrie, chiamate a validare le tecnologie e a collaborare in alcuni momenti precisi che l’lPLCM  identifica per loro.

 

I casi Paese

Ma come funziona il TT all’estero?

In vari paesi del mondo i Governi si sono fatti promotori della creazione di modelli nazionali di Trasferimento Tecnologico e dell’adozione di idonee procedure ed efficaci strumenti.

Se pensiamo al modello francese, vediamo un rapido consolidamento del proprio “mercato” del Tech Transfer grazie al quale, soltanto nell’ultimo decennio, si sono raggiunti risultati ragguardevoli. Di fatto la Francia in 10 anni ha stanziato per la Ricerca e il Trasferimento Tecnologico 77 miliardi di euro (secondo quanto pubblicato dal Gouvernement France), finanziato 13 Società di Accelerazione del Trasferimento Tecnologico e formato circa 650 persone che lavorano nel TT in queste strutture pubblico-private, in aggiunta a quelle presenti nei Tech Transfer Offices (TTO) della ricerca pubblica.

Un altro Paese molto attivo è sicuramente UK. Basti pensare che secondo un recente studio di London Economics, la sola università di Cambridge contribuisce all’economia del Regno Unito per quasi 30 miliardi di sterline. Oltre il 77% di questo contributo totale è il risultato della commercializzazione delle attività di trasferimento delle conoscenze. Inoltre, nel Regno Unito si contano circa 4.000 professionisti che lavorano nei TTO delle circa 150 università inglesi, ossia circa 25 persone per istituto.

Passando oltre oceano, solo negli Stati Uniti dal 1996 al 2020 il contributo del Trasferimento Tecnologico al GDP americano è stato di un trilione di dollari e ha supportato la creazione di più di 6 milioni di posti di lavoro.

Mentre, secondo la Biotechnology Industry Organization (The Economic Contribution of University/Nonprofit Inventions in the United States: 1996-2013; March 2015) dal 1996 al 2013, l’impatto economico delle licenze di brevetti universitari e non profit è stato di oltre 500 miliardi di dollari sul prodotto interno lordo degli Stati Uniti.

Anche l’Europa a livello centrale fa la sua parte, sostenendo con ingenti investimenti la crescita della filiera europea del TT strumento ritenuto fondamentale per riuscire a raggiungere in tempi rapidi la sovranità tecnologica europea nelle tecnologie di frontiera per essa strategiche. La filosofia alla base dell’approccio della Commissione Europea è che il Trasferimento Tecnologico è decisamente positivo per la società, poiché promuove l’innovazione apportando vantaggi a breve e lungo termine per l’industria e il mercato. (EU Industrial Strategy policy, Research and Innovation (R&I) Framework Program Horizon Europe).

Ma veniamo all’Italia, che per eccellenze scientifiche non è di sicuro ultima.

L’Italia è Deep Tech

L’Italia, di fatto,  è posizionata molto bene dal punto di vista delle eccellenze e delle competenze interne, essendo all’undicesimo posto nella graduatoria dei paesi più virtuosi al mondo per depositi di brevetti con 4.864 brevetti depositati, mentre nel 2018 sono state costituite 155 imprese spin-off creati dalle università e centri di ricerca i cui TTO contano circa 437 addetti, un numero ancora molto piccolo ma in crescita grazie sempre ai finanziamenti PNRR. E passando al settore privato, i segnali sono molto positivi se prendiamo soprattutto il valore degli investimenti dei Venture Capital italiani in start-up, scale-up e imprese innovative, i quali hanno superato gli €1,8 miliardi in 323 round e registrato una crescita per ammontare investito del 48% rispetto al 2021 creati (http://growthcapital.vc//wp-content/uploads/2023/01/Osservatorio-trimestrale-VC-Italia-Q4-22-e-FY-22.pdf). Con questi numeri l’Italia risulta il Paese con la crescita in percentuale più sostenuta in Europa. Come si evince dalla tabella, i volumi di esportazione di beni di consumo italiani propendono per i beni derivanti da produzione industriale ad alto valore tecnologico.

Dunque, l’Italia è un paese a vocazione industriale, con elevata capacità tecnologica e un alto valore in termini di ricerca. Di fatto, l’Italia, al ventitreesimo posto mondiale per numero di popolazione e all’ottavo per Gdp, si colloca nel 2016 al settimo posto delle classifiche per numero di pubblicazioni scientifiche, come evidenziato dal “Dynamics of scientific production in the world, in Europe and in France, 2000-2016“, per il quale le pubblicazioni scientifiche italiane sono state 1,9 milioni nel 2016, oltre 2,3 volte quelle del 2000.

Oggi, molto più che in passato, le risorse finanziarie sono disponibili per trasformare questo patrimonio di conoscenze in valore economico per l’intero Paese e il Trasferimento tecnologico è uno strumento efficace per farlo, come è accaduto in altri Paesi prima di noi.

Ma, per i più cinici, quali sono davvero i ritorni?

Il ROI del TT

Il calcolo del Ritorno dell’Investimento da Trasferimento tecnologico deve tenere conto di ben ampi parametri, quali l’impatto economico, l’impatto sociale, lo scambio delle conoscenze e l’avanzamento della ricerca (ovvero la Co-evoluzione del sistema Ricerca /Impresa), i benefici sulla società in termini di cambio culturale e approccio al futuro, grazie al miglioramento delle condizioni della vita.

Facciamo un esempio concreto di ROI nel settore sanitario italiano. Secondo uno studio Altems del 2021, per ogni €1 investito dalle aziende negli studi clinici, sono stati generati €1,77 di risparmi aggiuntivi per il Servizio Sanitario Nazionale (SSN), pari ad un effetto leva di 2,77 in termini di costi evitati. Qualora dovessimo applicare questo effetto leva agli investimenti di R&S effettuati nel 2020 all’intero settore farmaceutico (€1,6 miliardi), il beneficio apportato al SSN ammonterebbe a circa €4,4 miliardi. Rimane fondamentale quantificare il ROI anche per settori al di fuori dal settore farmaceutico, in modo da generare un moltiplicatore per il trasferimento tecnologico per diversi ambiti e migliorare ulteriormente lo story-telling associato al Tech Transfer, anche lato investitori.

Il volume delle nuove scoperte scientifiche e tecnologiche generati da istituti di ricerca ed altri enti pubblici e privati è enorme. Senza trasferimento tecnologico, centinaia di scoperte scientifiche rimarrebbero semplici lavori accademici, andando ad aumentare il numero delle pubblicazioni scientifiche, ma non quello dei brevetti di invenzione.

Il vero premio per avviare un modello di TT è quello di poter costruire una società del futuro più felice, consapevole dei benefici ottenibili da una innovazione attenta alle esigenze degli individui e della collettività, che sappia trasformare la ricerca in innovazione, e quindi più pronta a creare valore attraverso percorsi collaborativi integrati. Tutto questo si traduce in valore economico, posti di lavoro, nuove professioni STEM, arricchimento delle grandi aziende insieme alle piccole imprese tecnologiche e, non di secondaria importanza, determina la crescita della credibilità internazionale del nostro Paese.

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