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Venture Capital: sostenibilità e deeptech come leve anticrisi

Nell’immaginario collettivo, il “Made in Italy” è da sempre sinonimo di maestria artigiana, qualità impeccabile e design senza tempo; tuttavia, dietro questo brand italiano si cela un’anima industriale pulsante pronta a sfidare i mercati internazionali con innovazione e tecnologia all’avanguardia. Questo rinnovato volto del Made in Italy, spesso sottovalutato nella narrazione comune, emerge come un catalizzatore fondamentale per attrarre investimenti e rafforzare la competitività del Bel Paese su scala globale.

I settori industriali di spicco, come quelli del Deep Tech, stanno infatti emergendo come pilastri fondamentali dell’ecosistema economico italiano. Questi comparti non solo producono beni di alta qualità, ma anche tecnologie avanzate che hanno un impatto tangibile sulla vita quotidiana delle persone e sulla società nel suo complesso. Dai dispositivi elettronici alla robotica, dalle energie rinnovabili alla biotecnologia, il Made in Italy industriale sta trasformando il modo in cui viviamo, lavoriamo e interagiamo con il mondo che ci circonda. Ma qual è il vero vantaggio competitivo di questa “rivoluzione industriale italiana”? È la capacità di trainare le nostre esportazioni oltre confine, posizionando l’Italia tra i leader in settori ad alta crescita e ad alto valore aggiunto. Grazie alla loro innovazione e alla loro qualità, i prodotti italiani del Deep Tech sono sempre più richiesti sui mercati internazionali, contribuendo in modo significativo alla bilancia commerciale del nostro Paese.

Tuttavia, per capitalizzare appieno questo vantaggio competitivo, è necessario un cambio di prospettiva e di narrazione. È ora di mettere da parte la sola immagine stereotipata del Made in Italy come sinonimo di tradizione e artigianato e di abbracciare pienamente anche la sua identità industriale e tecnologica. Solo così potremo attrarre gli investimenti necessari per alimentare la crescita di queste industrie e garantire la nostra competitività sui mercati globali.

E i dati ci danno ragione: secondo l’ultimo rapporto SACE, le esportazioni verso l’estero, a dimostrazione della falsa convinzione precedentemente citata, sono trainate principalmente dai settori dei Beni di Investimento. Nei primi nove mesi del 2023, questo comparto ha registrato un notevole aumento (+9,9%), trainato soprattutto dai mezzi di trasporto (con un incremento superiore al 15%), mentre il settore automobilistico ha segnato un balzo del 17,3%. Anche la meccanica strumentale ha evidenziato una crescita significativa (+8,7%), soprattutto nei segmenti delle macchine utensili e dei macchinari per il packaging. Le previsioni indicano che i beni di investimento continueranno a guidare la crescita delle esportazioni italiane anche nel 2024, con un aumento stimato del 4,6%. Per il biennio 2025-26, si prevede che il traino sarà dato principalmente dai mezzi di trasporto (+5,1%) e dai prodotti elettrici (+5,3%), settori fondamentali per la transizione verso la sostenibilità. Inoltre, analizzando le esportazioni italiane suddivise per categorie, emerge che più del 67% dell’export proviene dai settori industriali, comprendenti i Beni di Investimento e i Beni Intermedi. Questo dato evidenzia che l’Italia è una potenza industriale in Europa non solo grazie ai settori tradizionali come moda e alimentare, ma soprattutto grazie alla produzione e all’esportazione di beni industriali, posizionandosi al secondo posto solo dopo la Germania.

Il ruolo del Venture Capital
Nonostante l’eccellenza delle nostre piccole e medie imprese italiane, molte di queste realtà si trovano però ad affrontare ostacoli e sfide significative nel loro percorso di crescita, tra cui la mancanza di accesso a capitali coraggiosi e pazienti che possano alimentare la loro espansione e sviluppo. Il settore del Venture Capital (VC),  ha dimostrato di essere un motore di crescita cruciale per molti altri Paesi, offrendo finanziamenti e supporto strategico alle imprese emergenti, consentendo loro di realizzare il loro pieno potenziale. Tuttavia, in Italia, questo meccanismo di finanziamento non ha raggiunto il livello di maturità e diffusione di altri Paesi.

Guardando alla Francia, per esempio, possiamo notare come, dieci anni fa, il suo livello di capacità innovativa e di ricerca fosse paragonabile, se non addirittura inferiore, al nostro. Tuttavia, grazie a significativi investimenti statali nel Venture Capital e nel trasferimento tecnologico, il paese è riuscito a posizionarsi ai vertici della competizione europea per quanto riguarda tecnologie e imprese emergenti. Attualmente, la Francia occupa il sesto posto a livello mondiale e il secondo in Europa per la spesa interna lorda in ricerca e sviluppo, con un investimento di ben 73 miliardi di dollari solo nel 2019, come riportato da fonti ufficiali di Business France Editor – Invest in France.

Le piccole aziende e le microimprese rappresentano il cuore pulsante dell’imprenditoria italiana, e investire in esse significa investire nel futuro dell’economia del Paese; tuttavia, senza un accesso adeguato ai capitali necessari, molte di queste realtà rischiano di restare bloccate in una fase di crescita limitata o addirittura di stagnazione.

L’Italia dimostra, quindi, un’eccellenza in campo scientifico, posizionandosi al sesto posto mondiale per il numero di pubblicazioni accademiche. Le sue competenze tecnologiche, diffuse su tutto il territorio nazionale, insieme alla tenacia degli imprenditori italiani, consentono la realizzazione di prodotti industriali di altissimo valore, paragonabili, se non superiori, a quelli francesi. Tuttavia, per sfruttare appieno questo potenziale, è essenziale garantire un adeguato flusso di capitali sia dal settore privato che pubblico fin dall’inizio del processo innovativo.

La debolezza strutturale del sistema finanziario italiano nel settore del Venture Capital, di cui abbiamo appena parlato, è un tema rilevante che concorre a rallentare, in questo scenario, anche il processo di trasferimento tecnologico nel nostro Paese. È chiaro che tutto ciò crea un effetto domino sul valore della produzione di brevetti industriali, che continua ad essere inevitabilmente al di sotto di Paesi come Germania e Francia (4.600 brevetti di aziende italiane depositati all’Ufficio Europeo dei Brevetti nel 2020, contro i 25.954 della Germania e i 10.554 della Francia).

Per un vero cambio di rotta, è necessaria una regolamentazione stabile e affidabile nel tempo, che eviti cambiamenti improvvisi e retroattivi nelle normative. Inoltre, come dicevamo è indispensabile creare una nuova narrazione nazionale, un racconto strategico che vada al di là delle stereotipate rappresentazioni di un’Italia limitata a food, fashion e turismo. È tempo di riconoscere e valorizzare con orgoglio l’identità industriale del Made in Italy. Dobbiamo promuovere costantemente le nostre eccellenze tecnologiche e industriali, che costituiscono la vera essenza economica e sociale del Paese. Queste devono diventare il fondamento di una nuova cultura nazionale, capace di infondere nei cittadini un forte senso di appartenenza e di identificazione quando si parla dell’Italia come un Paese industrialmente avanzato dal punto di vista tecnologico.

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